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Coscienza, tra libertà e condizionamento

 

«C’è molta meno libertà ed arbitrarietà nella vita psichica di quanto siamo propensi a credere, forse non ce n’è affatto. Ciò che chiamiamo caso nel mondo esterno può, come è noto, risolversi in leggi; così anche ciò che chiamiamo arbitrarietà nella mente si basa su leggi che solo ora cominciamo oscuramente a sospettare... Siamo consciamente confusi e inconsciamente controllati.»

(Sigmund Freud)


La nostra associazione Uma.na.mente
http://www.umanamenteonline.it ha voluto continuare con gli studenti e le studentesse delle scuole medie superiori la riflessione sul condizionamento della libertà che avevamo avviato lo scorso anno nel convegno "Coscienza, tra libertà e condizionamento".

Abbiamo pertanto dedicato a questo tema la terza edizione di STRANA.MENTE, il concorso letterario rivolto agli studenti/alle studentesse degli istituti superiori che, accompagnati/e dai loro docenti, desiderino avvicinarsi, attraverso la lettura di testi e/o la visione di film alla comprensione dei meccanismi e delle forme del disagio psichico.

Il nostro concorso si propone come accompagnamento all’impianto educativo e culturale del curricolo scolastico, dando ai ragazzi l’opportunità di riconoscere il disagio psichico che è in ognuno di noi, in un’ottica di comprensione e accettazione dei fenomeni psichici apparentemente "strani" come parte dell’umano.

Gli elaborati (testi, video, disegni) realizzati dai ragazzi e dalle ragazze sotto la guida dei loro docenti sono stati analizzati e valutati da una giuria composta da docenti, psicoterapeuti e operatori sociali. I lavori migliori, nelle diverse categorie, verranno premiati nel corso di una cerimonia, arricchita da un’esperienza di teatro dialogo, che si terrà a Brescia sabato 4 maggio (ore 8.30-13.30) al MO.CA (Centro per le Nuove Culture, Salone delle Danze) Via Moretto 78, con il patrocinio di Comune di Brescia, Provincia di Brescia, Ufficio Scolastico Regionale e Comune di Lograto.

Come introduzione "onlife" alla premiazione avvieremo da domenica 28 aprile a sabato 4 maggio un dibattito Twitter aperto a tutti sul tema del condizionamento della nostra libertà commentando brani significativi tratti dalle Coefore di Eschilo e dal quarto libro dell’Eneide (abbandono di Didone).

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Eschilo
Coefore
 
La tragedia trae il titolo dalle «portatrici di libagioni», le donne che versano offerte rituali sulla tomba di Agamennone e che costituiscono il coro della tragedia. L’azione teatrale, continuazione dell’Agamennone, è incentrata sull’uccisione di Clitemnestra da parte del figlio Oreste (aiutato dall’amico Pilade) che intende così vendicare l’assassinio del padre da lei compiuto con la complicità dell’amante Egisto. La tragedia raggiungerà, quindi, il culmine con l’uccisione di Egisto e di Clitemnestra, trascinata e uccisa sul corpo dell’amante.
In chiusura Oreste annuncerà la sua partenza per Delfi allo scopo di purificarsi: la sua angoscia preluderà agli sviluppi nella terza tragedia della trilogia, le Eumenidi.


28 aprile 2019
Prima citazione

 

Nella scena d’apertura Oreste, tornato dall’esilio, si reca a visitare la tomba del padre. Depone su di essa una ciocca di capelli ed eleva una preghiera rituale, rammaricandosi di non essere stato presente al momento della sua morte: indizi che alludono, forse, al tema della vendetta. Anche Elettra, d’altra parte, di lì a poco, esorterà il fratello ad affrettare l’impresa. Oreste prega Zeus, protettore della stirpe regale, di assisterlo e di dargli la forza necessaria: egli è indotto a compiere la vendetta non soltanto da motivi personali, ma da Apollo stesso (qui designato con l’epiteto Lossia, cioè «dai responsi ambigui») che a Delfi gli ha intimato, sotto minaccia di atroci punizioni, di non riconciliarsi con gli assassini e di dar loro morte per morte.
Dal primo episodio, vv. 269-305.

 

Oreste

No, non mi tradirà il Lossia e il suo oracolo potente: lui mi ordina di tentare questa prova. Sempre mi incita e minaccia una tempesta di sciagure – il sangue mi ribolle – se non ricambio gli assassini di mio padre con la stessa moneta: morte con morte!

Altrimenti – afferma il dio – pagherò io con la mia vita, tra molti insopportabili tormenti, infuriato per i miei beni perduti.

Il dio rivelò agli uomini la collera dei dèmoni maligni della terra: e io ho saputo di morbi che si attaccano alle carni, di morsi selvaggi dei cancri che divorano alla radice la vita, di piaghe biancastre, putride per la malattia.

E poi gli attacchi delle Erinni evocava a gran voce, che sorgono dal sangue paterno [...]: vedono chiaro i loro occhi, allenati alle tenebre! È dalle tenebre, già, dal buio delle profondità della terra, che viene quella freccia: dai morti viene, che ai figli supplicano vendetta. E sarà furore, un folle terrore che nelle notti agiterà, sconvolgerà, scaccerà via dalla città con una frusta di bronzo il corpo tormentato del reietto. E non potrà prendere parte ai simposi, né ai riti: dagli altari lo allontanerà invisibile l’ira del padre. Nessuno poi lo accoglierà nella sua casa; da tutti sarà disprezzato, detestato e col tempo dovrà morire, malamente abbrutito da una mala morte.

Questi erano gli oracoli: come potrei non crederci? Ma anche se non ci credessi, va fatto ciò che deve essere fatto.

Molte intenzioni convergono su questo punto: gli ordini del dio, il grande lutto per mio padre, la privazione dei miei beni che mi angustia; e il fatto che i cittadini più gloriosi di tutto il mondo, coloro che hanno fama di essere stati i conquistatori di Troia, si trovano allo stato dei servi: servi di due femmine. Sì, hanno cuore di femmina! E se così non è, lo sapremo ben presto. 

(Eschilo, Tragedie, trad. di Monica Centanni, Mondadori, Milano 2007, pp. 535-537)


29 aprile 2019
Seconda citazione


Il
coro rivela ad Oreste un sogno fatto dalla madre, uno tra i tanti che angosciano le sue notti: le sembrava di mettere al mondo un serpente che ella fasciava di pannolini e nutriva con il latte del suo seno, finché il mostro succhiò un grumo di sangue mescolato al latte.  Per placare l’angoscia del sogno spaventoso, Clitemnestra aveva inviato offerte rituali e parole di scongiuro all’ombra del re assassinato. Ma le donne avevano esitato a profferire tali parole: il sangue non può essere lavato e attende vendetta.
Dal primo episodio, vv. 510-550.

 

Corifea 

Sta bene tutto quanto avete detto e ripetuto: così avete fatto onore a questa tomba che non aveva avuto compianto. Ma ora, poiché hai preso la decisione di agire nell’animo tuo, agisci e metti alla prova il destino!
 
Oreste

E così sia. Ma, non sarà fuorviante se ora ti chiedo: perché lei mandò queste libagioni? Per quale ragione ora, tardivamente, si prende cura di un male irreparabile? Per un morto, che nulla avverte, è un’offerta ben miserabile questa che manda! Non so cosa pensare. Il dono è molto inferiore rispetto alla sua colpa. Per quanti libami si versino, rispetto a una sola goccia di sangue, è tutto vano e sprecato: così dice il proverbio.
Se lo sai, dimmelo; voglio sapere.
 
Corifea
 
Lo so, figlio mio, ero là. Incubi e angosce notturne, tremende, la sconvolsero: perciò mandò queste libagioni quella donna disgraziata!
 
Oreste
 
Conoscete anche il sogno? Potete raccontarmelo bene?
 
Corifea
 
Le pareva di partorire una serpe: così ha detto!
 
Oreste
 
E come finiva la storia? Come si concludeva?
 
Corifea
 
La avvolgeva in fasce, come fosse un bambino.
 
Oreste
 
E come si nutriva, quel mostro appena nato?
 
Corifea
 
Lei gli porgeva il seno in quel sogno...
 
Oreste
 
E quell’orrida creatura? Non le ferì il petto?
 
Corifea
 
Sì, succhiava latte e insieme un grumo di sangue!
 
Oreste
 
Non sarà solo una vana visione!
 
Corifea
 
E lei nel sonno urlò forte, sconvolta, e le molte torce già spente nel buio della reggia si accesero, per volere della Signora. E poi subito manda questi libami funebri, sperando di rimediare, di tagliar via di netto l’angoscia.
 
Oreste
 
Ora io prego questa terra, e la tomba di mio padre, che il sogno si avveri: da come lo interpreto tutto corrisponde, punto per punto. Perché se quel serpente è uscito dallo stesso ventre da cui io sono uscito, se è stato avvolto nelle mie stesse fasce, se la sua bocca si è attaccata allo stesso seno che mi ha nutrito, e ha succhiato insieme al suo latte un grumo di sangue; se lei terrorizzata urlò per il dolore; allora lei che nutrì quel mostro orrendo deve morire di morte violenta! Eccomi allora: sono io quel serpente, e la uccido come il sogno predice.

 (Eschilo, Tragedie, trad. di Monica Centanni, Mondadori, Milano 2007, pp. 551-555)


30 aprile 2019
Terza citazione 

 
Oreste sta portando a termine la vendetta, non senza le esitazioni della coscienza e le ambivalenze della libertà e del condizionamento.
Dal terzo episodio, vv. 896-930.
 

Clitemnestra

Fermati! Abbi rispetto, figlio mio, di questo seno, su cui tante volte ti addormentavi e intanto con le labbra succhiavi il dolce latte che ti nutriva.

 

Oreste 

Pilade: cosa devo fare? È mia madre: come trovo il coraggio di ucciderla?

 

Pilade 

E cosa ne sarà poi degli oracoli del Lossia, delle parole della Pizia, della fede nei giuramenti? Meglio avere tutti contro, tutti nemici, ma non gli dei!

 

Oreste 

Sì, hai vinto: mi hai convinto, hai ragione. 

[...] 

Clitemnestra 

Figlio mio, lo so, ora uccidi tua madre!

 

Oreste 

Sei tu, non io, che uccidi te stessa.

 

Clitemnestra 

Bada bene! Sta' attento alla furia delle cagne della madre!

 

Oreste 

E come sfuggirò a quelle del padre, se ora mi tiro indietro?

 

Clitemnestra 

Sono ancora viva e già mi pare di piangere invano sulla mia tomba.

 

Oreste 

È il destino di mio padre che ha decretato per te questa morte.

 

Clitemnestra 

Ahimè, ho partorito questa serpe: io l'ho nutrita. Vera profezia era l'incubo di quel sogno!

 

Oreste 

Hai ucciso chi non dovevi uccidere: ora patisci ciò che non dovresti patire.

 

 

 

A compimento dell’impresa, annuncia che si recherà a Delfi a purificarsi, come gli ha imposto il dio, anche perché comincia a essere turbato dalla visione delle Erinni, le dee della maledizione per i delitti di sangue, che la madre ha evocato contro di lui prima di morire. L’ultima scena presenta un Oreste sconvolto e un coro preoccupato per la sorte dell’eroe.
Dall’esodo, vv. 1021-1076.

 


Oreste
 

Ma ascoltate bene, perché io non so come andrà a finire: sono come un auriga che tiene le briglie a cavalli che ormai sono andati fuori pista.  Mi trascinano, sono travolto... i miei pensieri senza più freno... E sul mio cuore il Terrore è pronto a cantare, e per la Furia è pronto a danzare... ma finché sono in me proclamo ai miei cari che ho ucciso mia madre per giustizia: aveva ucciso mio padre, era infetta, invisa agli dei. E questa pozione di audacia – me ne vanto – me l’ha data il profeta pizio, il Lossia: fu lui che mi predisse che se avessi compiuto questa impresa sarei stato libero dalla colpa, e se invece mi fossi tirato indietro... no, non dirò quale sarebbe stata la punizione, non riuscirei ad arrivare a tiro di tanta pena!

 

E ora guardatemi: sono pronto! Con un ramoscello avvolto nelle bende vado al santuario posto nel cuore del mondo, nella terra del Lossia, dove si dice splenda la luce del fuoco inestinguibile. Fuggo via da questo sangue, via dal mio stesso sangue! Il Lossia mi ordinò di andare soltanto alla sua dimora.
E dico a tutti gli abitanti di Argo di «serbare memoria» nel tempo: li chiamo a testimoni di come si svolsero queste sciagure, per [quando giungerà] Menelao.
Io vado ora, errabondo, esule dalla mia terra! [...] Che viva o che muoia lascio di me questa fama.


Corifea 

Ma è stato giusto il tuo gesto! Non incatenarti la lingua con parole maligne: non pronunciare parole di disgrazia! Hai liberato tutta la città di Argo; hai tagliato con un solo colpo, bene assestato, la testa alle due serpi.

Oreste 

Ah ah!
Quali femmine sono mai queste? Come le Gorgoni hanno nere le vesti, intricate le chiome di fitti serpenti: non posso più rimanere qui, io!


Corifea 

Quali visioni ti sconvolgono? Tra tutti sei il figlio al padre più caro! Coraggio, non aver paura: la tua è stata una grande vittoria!

Oreste 

Non è una visione questa che mi strazia! Le vedo bene: sono le cagne furiose della madre!

Corifea 

Hai ancora le mani insanguinate. È per questo che sei scosso, e la tua mente è sconvolta.

Oreste

Apollo, signore! Eccole, sono qui, sono sempre di più e dai loro occhi cola un umore ripugnante.


Corifea

Per te c’è una sola purificazione: il tocco del Lossia e sarai libero da queste pene.


Oreste 

Voi no, non le vedete; ma io le vedo! Mi cacciano: non posso più restare qui, io.


Corifea

Va’ allora, e abbi fortuna: vegli su di te benigno il dio e ti protegga per tempi migliori.

 

 Coro

Nella casa regale.
Questa è la terza tempesta che travolge la stirpe. Ora tutto è compiuto.
Un pasto con le carni dei figli: così cominciarono
le miserande sventure [di Tieste].
Poi venne lo strazio di un uomo, del re:
sgozzato nel bagno morì il condottiero degli Achei.
Ora, infine, è arrivata la terza... dovrei dire salvezza o rovina? 
Quando mai finirà, quando si placherà, 
e avrà pace la furia di Ate?

  

(Eschilo, Tragedie, trad. di Monica Centanni, Mondadori, Milano 2007, pp. 579-583; 589-593)

 

 

Virgilio
Eneide  

 

Il quarto libro dell’Eneide è dedicato alla tragedia di Didone ed Enea. Dopo la morte del marito Sicheo, la regina Didone non ha più amato nessuno. Ora, però, incontrato Enea, risente la fiamma amorosa di un tempo; la sorella Anna la incoraggia perché le vuol bene e soffre vedendola infelice; pensa inoltre che per il regno possa esserle utile l’aiuto di un così grande eroe.
Didone resiste, ma arde («uritur infelix Dido»). Un giorno, durante una caccia, una tempesta suscitata da Giunone, che spera di trattenere Enea in Libia, fa incontrare Enea e Didone in una grotta. I due cedono alla passione. Passano i mesi, finché Mercurio, inviato da Giove, intima ad Enea di riprendere il viaggio. Didone si dispera, supplica e impreca. Enea è irremovibile. Rivelatasi vana ogni preghiera, Didone concepisce il disegno di morire: Enea vedrà dal mare le fiamme del rogo su cui ella si è uccisa con la spada da lui ricevuta in dono.

 

1 maggio 2019
Prima citazione


Didone riconosce i segni del suo innamoramento e con esso il conflitto fra pudor e furor. Fino a che punto è un conflitto naturale e quanto è, invece, indotto dal maschilismo di allora (e di adesso)? La resistenza di Didone è corrosa dall’interno? È lei che nutre la sua ferita e si lascia consumare dal desiderio dell’amore? È vittima dell’istinto?
IV, 1-30


Intanto la regina già da tempo piagata
da profonda passione, nutre nelle sue vene
la ferita e si strugge di una fiamma segreta.
Le ritorna alla mente lo splendido valore
dell’eroe e la sublime gloria della sua stirpe;
porta confitti in cuore le sue parole e il suo volto,
e non trova riposo, quel fuoco non le dà pace.
Il giorno seguente l’Aurora illuminava la terra
con la luce del sole, e aveva cacciato dal cielo
già tutta l’umida ombra, quando Didone
fuori di sé si rivolge alla fedele sorella:
“Anna, sorella mia, che sogni mi spaventano
e mi tengono in ansia! Non ho mai visto un uomo
come l’ospite nostro! Così nobile d’aspetto,
d’animo valoroso e forte nelle armi!
Credo proprio (ed è vero!) che sia di stirpe divina,
poiché la viltà rivela le anime degeneri.
Ahi, da quale destino è stato travagliato,
come ieri diceva! Che guerre ha sostenuto!
Se non avessi deciso irrevocabilmente
di non voler più sposarmi con nessuno
dopo che il primo amore se l’è preso la morte
e mi ha lasciata così, delusa, piena d’odio
per le faci nuziali ed il talamo, forse
avrei potuto cedere unicamente a lui.
Anna, te lo confesso, dopo la morte del povero
mio marito Sicheo, dopo il delitto fraterno
che ha macchiato di sangue la casa familiare,
questi è il solo che m’abbia colpito i sensi, il solo
che m’abbia folgorato l’anima, così da farla
vacillare: conosco i segni dell’antica fiamma!
Ma la terra profonda s’apra sotto i miei piedi
o il Padre onnipotente mi fulmini nell’ombra,
tra le pallide Ombre dell’Inferno e la notte,
prima che io possa offenderti, sacro Pudore, e violare
le tue leggi. Colui che per primo mi unì
al suo destino d’uomo s’è preso tutto il mio amore,
ora lo tenga per sé, lo serbi nel sepolcro.”
Scoppiò in pianto e le lagrime le corsero giù per il petto.

 

2 maggio 2019
Seconda citazione


Mercurio ordina ad Enea di navigare («naviget»). Lo vuole il destino? Esiste il destino? Enea subisce il fascino del potere e rinuncia al piacere? Sta attraversando una radicale crisi di coscienza? o una crisi di mezza età? È il classico seduttore che, raggiunto lo scopo, se ne fugge alla chetichella?
IV, 224-300


Mentre diceva così, tenendo posata la mano
sull’altare, l’udì l’Onnipotente e volse
gli occhi alle mura regali e agli amanti dimentichi
di ogni fama migliore. Disse allora a Mercurio:
“Va’, figlio, corri, chiama i venti, sollevati a volo
e parla al capo troiano, che perde tempo a Cartagine
e non pensa alle terre che il Fato gli ha destinato,
recagli tu per l’aria il mio alto comando.
Non ce lo promise così la bellissima madre,
non lo scampò per questo due volte alle armi dei Greci:
ma perché regga l’Italia gravida di imperi
e fremente di guerra, perché perpetui la razza di Teucro
dal nobile sangue, perché detti leggi al mondo.
Se non lo accende l’onore di cose tanto grandi
se non vuol faticare né gli interessa la gloria,
perché proprio lui, suo padre, vuol defraudare Ascanio
delle rocche romane? Cosa crede di fare?
Che cosa spera indugiando tra gente nemica
senza pensare al futuro, alla grande progenie
che un giorno avrà in Italia, ai campi di Lavinio?
Navighi, questo è il mio ordine: siine tu messaggero.”
Disse. E Mercurio subito si prepara a obbedire
al gran cenno del padre; prima s’allaccia ai piedi
i calzari d’oro, alati, che lo portano in alto
volando sopra i mari e sopra la terra, rapido
come il vento.

[...]

Enea fuori di sé ammutolì a quella vista,
gli si drizzarono in testa per l’orrore i capelli,
gli si fermò la voce in gola. Smania di correre
via, abbandonando le terre che pure gli sembrano dolci,
percosso dall’alto monito e dal comando divino.
Ma come farà? Con quali parole adesso oserà
rivolgersi alla regina innamorata, furiosa?
Di dove incomincerà il suo discorso? Volge
rapidissimamente il pensiero qua e là,
ideando diverse soluzioni, pesandole
una per una. Infine, benché sia sempre in dubbio,
crede di aver trovato il partito migliore.
Chiama Mnèsteo, Sergesto ed il forte Seresto;
armino zitti zitti la flotta e sulla riva
riuniscano i compagni, preparino ogni cosa
senza lasciar capire quale sia la ragione
di tanta novità; intanto lui, poiché
Didone non sa nulla e crede che un amore
così grande non possa spezzarsi, cercherà
il modo e l’occasione più adatta per parlarle.
Tutti obbediscono lieti ed eseguono gli ordini.


3 maggio 2019
Terza citazione

Didone ed Enea si incontrano in un dialogo drammatico. I versi seguono la dinamica degli stati interiori di Didone. Il dramma è tutto suo? Enea è assente? già fuggito? Vilmente rassegnato all’ordine costituito?
IV, 301-407

Ma la regina (chi può ingannare chi ama?)
presentì tutto e s’accorse per prima di ciò che accadeva:
timorosa com’era di tutto, persino di quello
che più pareva sicuro. L’empia Fama in persona
disse che si allestiva la flotta per la partenza.
Folle d’amore, l’anima smarrita, dà in ismanie,
erra per la città fuori di sé, baccante
eccitata come una Menade quando infuria la festa,
quando al grido di Bacco la stimolano le orge
che vengono soltanto ogni tre anni, quando
il Citerone a notte la chiama con molto clamore.
Infine parla ad Enea per prima, così:
“Perfido, e tu speravi persino di nascondere
tanto male e partire dalla mia terra in silenzio?
Non ti trattiene il nostro amore, la mano
che un giorno ti fu concessa, Didone che sta
per morire di morte crudele? E invece tu
sotto le stelle invernali prepari la flotta
e ti affretti a solcare l’alto mare, tra i venti
terribili, o malvagio. E perché? Se corressi
non verso terre straniere, verso paesi che ignori,
ma fosse ancora in piedi l’antica Troia, andresti
a Troia con la flotta per l’ondoso mare?
Fuggiresti da me? Per questo mio pianto
e per la tua mano, per gli Imenei incominciati
e per la nostra unione, se ho meritato di te
in qualche modo, se cara ti fu qualcosa di me,
abbi pietà della casa che crolla, lo vedi, e abbandona
questo pensiero, ti prego, se si può ancora pregarti.
Le genti di Libia mi odiano a causa di te,
i tiranni numidi mi odiano a causa di te,
persino i Tiri mi odiano a causa di te;
a causa di te il pudore è morto, è morta la fama
per la quale soltanto arrivavo alle stelle.
A chi moribonda mi lasci? O Enea, ospite! Ospite!
Soltanto questo nome posso dare a colui
che un tempo chiamavo marito. Ma allora?
Forse attendo il fratello Pigmalione che bruci
le mie mura, o il re Jarba che mi porti in Getulia
schiava? Oh, se prima della tua fuga avessi
avuto almeno un figlio da te, un piccolo Enea
che per le sale giocasse e ti ricordasse
all’aspetto! Oh, che allora, non mi parrebbe del tutto
d’essere abbandonata e d’essere stata ingannata!”
Diceva così. Ma lui per gli ammonimenti di Giove
teneva immobili gli occhi e con sforzo premeva
dentro al cuore l’affanno. Alla fine risponde
con poche frasi: “Regina, non sarò io a negare
che hai tanti meriti quanti puoi contarne a parole,
e non mi scorderò di te finché mi ricorderò
di me stesso. Ma ascolta. Io non sperai di nasconderti
questa fuga, credilo pure, e del resto mai
ti tenni discorsi di nozze o pensai di sposarti.
Se i Fati permettessero che conducessi la vita
come vorrei, secondo i veri miei desideri,
sarei rimasto a Troia vicino alle dolci reliquie
dei miei, gli alti tetti di Priamo starebbero ancora
in piedi e con le mie mani avrei costruito ai vinti
una rinata Pergamo. Ma adesso Apollo grineo
mi comanda di andare in Italia: in Italia
mi ordinano di andare gli oracoli di Licia.
Questo è il mio amore, questa la mia patria. Se tu
che sei fenicia ami tanto le rocche di Cartagine,
questa tua bella città della Libia, perché
impedisci che i Teucri abbiano alfine riposo
nella terra d’Italia? È lecito anche a noi
cercare lidi stranieri. Tutte le volte
che la notte circonda le terre di umide ombre,
tutte le volte che sorgono gli astri infuocati, in sogno
l’ombra del padre Anchise, turbata, mi rimprovera
e mi spaventa, con lui mi rimprovera Ascanio,
povero bimbo, del torto che faccio al suo futuro,
poiché lo frodo del regno d’Esperia, dei campi fatali.
E proprio adesso Mercurio, messaggero dei Numi,
mandato da Giove (lo giuro per le nostre due vite)
m’ha portato per l’aria rapida questo comando:
- Naviga! - Ho visto il Dio in una luce chiarissima
entrare per le mura e con queste mie orecchie
ne ho sentito la voce: - Naviga! - Dunque cessa
di infuocare me e te con questi lamenti,
io non vado in Italia di mia volontà.”
Mentre diceva così lei lo fissava bieca
già da un poco, volgendo gli occhi qua e là, misurandolo
tutto con taciti sguardi; alfine furente
prorompe: “Tua madre non è una Dea, la tua stirpe
non viene da Dardano, ma il Caucaso selvaggio
aspro di rupi ti fece, ircane tigri allattarono
te da bambino. Ah, perché m’illudo, che cosa mi aspetto
più di questo? Lui forse s’è commosso al mio pianto?
Non ha battuto ciglio: non ha emesso un sospiro:
non ha avuto pietà dell’amante! Che cosa
immaginare di peggio? Ormai nemmeno la grande
Giunone e il padre Saturnio guardano con giustizia
a quanto avviene. Non c’è più alcuna buonafede,
in nessun posto. Lo presi morto di fame, gettato
sul lido dalla tempesta, lo misi a parte del regno,
pazza! Strappai la sua flotta dispersa all’estrema rovina
insieme ai suoi compagni. Ah, che furia m’avvampa!
Proprio adesso l’augure Apollo e gli oracoli lici
gli portano per l’aria questi ordini tremendi!
Certo è stato mandato da Giove in persona il fulmineo
messaggero dei Numi! Oh, davvero gli Dei
non hanno da occuparsi d’altro, se un tale pensiero
turba la loro quiete! Ma non voglio ribattere
le tue parole, non voglio neppure trattenerti.
Parti, va’ via col vento in Italia, cerca il tuo regno
attraverso le onde. Io spero soltanto,
se i pietosi Celesti hanno qualche potere,
che me ne pagherai il fio tra gli scogli, chiamando
spesso a nome Didone. Didone! Ma io lontana
ti perseguiterò con i fuochi infernali:
e quando la fredda morte spoglierà delle membra
l’anima, in ogni luogo dove tu andrai ci sarò,
pallido spettro, fantasma venuto a turbarti.
Sconterai la tua pena, empio, ed io lo saprò:
questa bella notizia mi giungerà tra le Ombre.”
Così dicendo tronca a mezzo il discorso, affranta
fugge la luce del giorno, scappa via e si leva
dagli occhi d’Enea, lasciandolo dubitante, pauroso,
desideroso di dirle molte cose. Le ancelle
accorrono e la portano al suo marmoreo talamo;
svenuta, le membra rigide, la posano sulle coltri.
Ma sebbene desideri alleviarle il dolore
e consolarla, calmandone con parole l’affanno,
benché sia intenerito dall’amore, dolente
il pio Enea obbedisce all’ordine divino
e ritorna alla flotta.



 

 

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